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In esclusiva per Resportage, il professor Macrì ha rilasciato un’intervista su temi di impellente attualità, non solo per le nostre dinamiche interne ma per tutta la sfera europea. A lui va un fervido ringraziamento.
Professore, nell’attuale scenario del Mediterraneo, con comunità di individui che si confrontano, anche in modo drammatico, e con aggregati sociali in continuo divenire, qual è, e quale può essere, il ruolo del diritto e dei doveri etici?
Il Mediterraneo rappresenta la dimensione culturale e geopolitica più in movimento da sempre. Lo è stato storicamente, lo è nel presente, “attraversato” com’è senza pausa da persone e gruppi che, a vario titolo, inseguono una “nuovo inizio”. Come nel passato, oggi, il “grande lago” riflette turbolenze d’ogni tipo, conferma conflitti atavici, aggiorna il suo taccuino di nuove “emergenze”, propone sfide entusiasmanti. Non esiste, purtroppo, una governance aggiornata sul Mediterraneo in grado di far sperare nell’inizio di una stagione di pace e benessere tra quanti (persone, stati, culture, etc.) si affacciano su di esso. Alcuni interpreti di questo processo leader politici e religiosi sono alle prese con proposte e azioni finalizzate a riscrivere una grammatica della “fratellanza” che senza dubbio lascia ben sperare; ma servono politiche mirate, inclusive, cooperative. Certamente l’Unione europea è chiamata a confrontarsi col Mediterraneo, per tante ragioni; non solo, però, in una logica contenitiva dei flussi migratori (che per alcuni stati membri dell’Unione rappresentano un fenomeno da curare esclusivamente a colpi di “pacchetti securitari”), bensì di impegno civile ad espandere il grande messaggio della cittadinanza cosmopolita caro ai padri fondatori del progetto europeista: una Europa mediterranea, dunque, capace di integrare i nuovi cittadini e di restituire progetti, investimenti, welfare. Certamente il diritto come scienza pratica è uno strumento idoneo a risolvere alcuni problemi che nascono dal confronto con l’alterità; a patto, però, di concepire il diritto come qualcosa che si costruisce e si rinnova continuamente, “insieme”, ognuno mettendo a disposizione dell’altro “quote” del proprio bagaglio giuridico così da allargare il perimetro della convivenza tra culture diverse. Per cui, l’Occidente deve dismettere il suo approccio esclusivista a ciò che le onde del Mediterraneo spingono sulle rive dell’Europa, mentre le culture non occidentali, attraverso i loro rappresentanti, devono proporsi in chiave più collaborativa, rivedendo (e all’occorrenza rimuovendo) tradizioni (prassi comportamentali) che persistono nel rigettare (a volte radicalmente) modelli di gestione dello spazio pubblico incentrati su ruoli predominanti, oppure differenze formali e sostanziali determinanti stati persistenti di discriminazioni tra persone e comunità. Insomma, senza farsi prendere dallo sconforto, tutti sono chiamati a dare un contributo costruttivo. Dal canto loro, i giuristi, possono offrire piattaforme di senso idonee a supportare questo nuovo corso della civiltà mediterranea.
Nella nostra Europa, esistono pericoli per il sereno rispetto degli ormai pienamente affermati diritti delle varie religioni?
Le religioni sono un prisma di prima grandezza per misurare il livello della democrazia, ovunque. Certamente il lavoro che le religioni hanno svolto storicamente in Europa non sempre è stato posto “al servizio” di valori come la tolleranza, la libertà, l’eguaglianza; valori-principi consacrati, da una certa epoca in poi, nelle Carte costituzionali dei paesi europei e del mondo. Non diciamo un’eresia se affermiamo che la libertà religiosa ha rappresentato per alcune chiese una “spina nel fianco”, un principio filosofico e giuridico “irriducibile” al presupposto teologico dell’esistenza di una sola verità che rigetta le altre, condannandole al silenzio e, in alcuni casi, alla persecuzione. Qualcuno dirà: il Medioevo è passato; le chiese si sono rinnovate e aperte alla modernità, al dialogo con il potere civile, alla laicità come schema divisorio del “giardino di Dio da quello di Cesare”. Tutto vero. Tranne piccole sacche di resistenza, le religioni (e le loro declinazioni dal punto di vista istituzionale) contribuiscono, nel presente, a migliorare la capacità di risposta delle società civili di fronte alla questione della multiculturalità e della multireligiosità. Di più … dove lo Stato spesso non riesce a dare risposte rapide e concrete soprattutto in termini di diritti sociali legati a vecchie e nuove fragilità, sopraggiungo le comunità religiose, che offrono soccorso, sostegno, opportunità. Tutto questo mettendo da parte antiche logiche di appartenenza di fede e diffidenze preconcette (verso lo stato e i “diversi”) e collaborando con soggetti privati e pubblici nell’ottica della solidarietà come “nucleo duro” della cittadinanza democratica. Quanto al modo come i poteri pubblici si pongono di fronte alle religioni, anche qui, tranne casi isolati, la libertà religiosa rappresenta una conquista fondamentale, non derogabile per motivi di politica ecclesiastica (“neo-confessionista”) ingiustificata e giuridicamente illegittima derivante anch’essa da quei processi di cooperazione sovranazionale che alcuni stati hanno deciso di intraprendere per scongiurare, tra le altre cose, il ripetersi di certe tragiche esperienze del passato, dove la religione era stata “presa di mira” col chiaro obiettivo di eradicarla dalla dimensione pubblica e finanche privata. Va pure detto, però, che nonostante l’affermazione di principi quale l’eguaglianza fra le religioni, il pluralismo religioso, la laicità pubblica e altri fattori connotanti le democrazie liberali, si continuano a registrare comportamenti in sede politica orientati a favorire alcune confessioni a danno di altre: certamente non attraverso le forme del passato (il confessionismo di stato), bensì tramite l’assecondamento di azioni lobbistiche praticate dagli apparati di alcune chiese dirette ad impedire la eguale rappresentazione degli interessi di tutte le organizzazioni religiose. Si estende, inoltre, la discrezionalità politica dei governi in materia religiosa frutto della crisi generale del Parlamento e della legge con ripercussioni negative sulla attuazione completa del diritto di libertà religiosa. In conclusione, occorre riportare al centro del dibattito parlamentare la politica del fattore religioso, arrivando per esempio in Italia prima possibile, alla approvazione di una legge generale sulla libertà di coscienza e di religione, che faccia “piazza pulita” di vecchie incrostazioni politiche e normative (come la vigenza della legge sui culti ammessi del 1929) e apra a una stagione nuova improntata all’insegna del pluralismo e della laicità.
Il diritto che afferisce alle religioni e agli individui che le professano è ancora suscettibile di miglioramenti, di adeguamenti? Vi è uno “stato dell’arte” della ricerca sull’evoluzione del diritto che si occupa del fattore religioso?
Questa domanda mi consente di meglio precisare quanto detto a conclusione della precedente. Certamente le potenzialità del diritto aumentate dal processo di integrazione euro-unitaria e internazionale aiutano a risolvere questioni pratiche che riguardano la libertà religiosa, individuale e associata. Il persistere di situazioni discriminatorie ha bisogno “anche” di risvegliare la politica; per politica intendo, non solo il lavoro che si svolge nelle assemblee elettive dai consigli di circoscrizione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite ma anche quanto, ogni persona, singolarmente o in forma associata, è in grado di fare anche solo guardandosi intorno. Si tratta di un dovere costituzionale: tutti noi in quanto “pezzi di Repubblica” siamo chiamati a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (parafrasando l’art. 3, co. 2 Cost.). Questo significa che, per quello che possiamo, dovremmo contribuire ad accrescere il valore della solidarietà attraverso azioni finalizzate ad incrementare il grado di socializzazione, l’arena delle libertà, la consapevolezza pubblica dell’importanza della religione (intesa in senso ampio; talmente ampio da includere anche la condizione di chi non crede). Dal punto di vista, invece, di ciò che a livello scientifico è stato fatto e si sta facendo per supportare il discorso appena citato guardando al caso italiano certamente quello che un tempo si chiamava “diritto ecclesiastico”, e che oggi “conviene” meglio definire “diritto e religione” (argomento importante sul quale non posso dilungarmi; magari lo faremo in un altro momento) sta vivendo una fase di grande espansione: nuovi filoni di ricerca, nuove sensibilità scientifiche, maggiore inclusione degli studiosi di questa materia in ambito pubblico a supporto del decisore civile, etc.; tutto questo contribuisce a migliorare la gamma di strumenti a disposizione della politica per dare risposte adeguate ai nuovi problemi pratici della laicità. Tutto questo aiuta a guardare il futuro con più fiducia.
Per le minoranze e per le culture minoritarie, sempre più sfidate e intimidite dalla globalizzazione, il diritto di quali strumenti è dotato per conservarne e preservarne i tratti peculiari?
Quella delle “minoranze” rappresenta una condizione che nel tempo è cambiata. Ovviamente i contesti sono decisivi. Se osserviamo l’Europa (e per essere più precisi l’UE) la condizione di persone e gruppi religiosi “non maggioritari” ha ricevuto una attenzione crescente in sede sociale e politica, accresciuta anche in sede giuridica, grazie al diritto europeo, soprattutto di matrice giurisprudenziale (Corte di giustizia UE, Corte di Strasburgo). Il diritto apicale dell’Unione europea, a partire dal Trattato di Maastricht (1992) ha incluso il tema dei diritti e delle libertà fondamentali nel perimetro giuridico dell’Unione, confermando, con la Carta di Nizza dei diritti fondamentali (2000) la ferma volontà a dotare l’Unione di un’anima politica. Grazie anche all’aiuto della Corte di giustizia UE, alcuni casi di discriminazione connotati in senso religioso sono stati affrontati e risolti in modo coerente ai valori di fondo dell’Unione (libera circolazione delle persone, delle merci, libertà di stabilimento, concorrenza, etc.). Opzione discutibile, ma significativa e ricca di potenzialità del modo come l’Unione guarda alla religione e ai gruppi. Dal punto di vista, invece, della Corte di Strasburgo (Consiglio d’Europa), l’approccio alla libertà di coscienza, di religione e di culto è stato quello di un “diritto pretorio” che riconosce i diritti delle minoranze (religiose) all’interno del (non sempre facile) bilanciamento con gli interessi nazionali dove alcune chiese maggioritarie ritengono di dover essere considerate “di più” e “meglio” rispetto alle altre. Il percorso è ancora lungo, ma l’obiettivo resta quello di arrivare, nel tempo, ad una condivisione di alcuni principi dai quali far discendere pronunciamenti idonei a ridurre al minimo le condizioni di discriminazioni verso sistemi di credenze e persone appartenenti ad essi.
Il mondo dell’università, quanto e come si attiva per coinvolgere i vari soggetti in percorsi di dialogo interreligioso e mediazione culturale?
Le Università, in quanto istituzioni che operano nella sfera pubblica assorbono quello che accade nella società e si organizzano per fornire risposte in termini di ricerca, analisi, governance alle domande che a vario genere emergono man mano che la complessità si intensifica. Non esiste perciò argomento di rilevanza pubblica che può sfuggire all’Accademia, stante le finalità che l’ordinamento giuridico (nazionale e sovranazionale) le “ordina” di perseguire, nel rispetto, ovviamente, dell’autonomia organizzativa e del bilanciamento dei valori-principi costituzionali. Per quanto riguarda, più specificamente, il rapporto tra mondo universitario e questioni (teoriche e pratiche) connesse al multiculturalismo, posso rispondere facendo riferimento alla mia esperienza personale come docente di diritto interculturale e delle religioni nel Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione dell’Università di Salerno. Per molti anni ho studiato e insegnato diritto ecclesiastico comparato, diritto e religioni, oltre che istituzioni di diritto pubblico e diritto pubblico comparato. Questa formazione mi ha permesso di approfondire il rapporto tra la dimensione pubblica (scandagliata dal punto di vista giuridico-istituzionale) e quella del fattore religioso (dimensione confessionale, problemi della libertà religiosa, rapporti stato-confessioni, etc.) procedendo col declinarla all’interno dei cambiamenti determinati dalla globalizzazione, tra cui il fenomeno migratorio. La sfida è stata quella di allargare il piano della ricerca (e della didattica) includendo filoni epistemologici “di confine”. Oggi, nel mio Dipartimento, grazie anche alla sensibilità e al sostegno degli ultimi due direttori, offriamo agli studenti (della triennale e della specialistica) la possibilità di includere nel proprio bagaglio di conoscenze temi nuovi, utili a rafforzare il proprio profilo formativo e ad essere pronti a cimentarsi con nuove esperienze post-laurea (e professionali). Mi piace ricordare il coordinamento di un laboratorio di mediazione culturale (condiviso con un collega storico), al cui interno i corsisti hanno la possibilità, non solo, di rafforzare una serie di aspetti teorici di alto livello inerenti la governance dei processi migratori, ma anche di confrontarsi con specialisti, accademici e del mondo delle professioni, il cui apporto è indispensabile, dal punto di vista materiale, sia per instillare entusiasmo nei giovani, sia per ascoltare chi, quotidianamente, si cimenta sul campo – con una delle questioni a più alto tasso di complessità. Per concludere, questa è l’Università in cui credo: non una torre d’avorio “separata” dalla società, ma un percorso di crescita comune, di confronto, di sperimentazione, di fiducia collettiva.

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