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di Gerardo Pecci

Il Piano Paesaggistico regionale è un atto importante per ogni disposizione legata alla salvaguardia e tutela dell’ambiente e del paesaggio, che è un prezioso e significativo insieme di natura e di cultura. Esso, per fortuna, trova però specifici limiti negli articoli 9 e 117 (secondo comma, lettera s) della Costituzione della Repubblica Italiana e nel D. Lgs n. 42/2004, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Non si può disporre di consumo del suolo a proprio piacimento per fini di edilizia, specie in ambiti territoriali paesaggistici vincolati per legge dallo Stato. Un esempio: i commi 2,3 e 4 dell’art. 12-bis del Piano Casa della Regione Campania (L. Regionale n. 19/2009) sono stati dichiarati illegittimi perché in aperta violazione delle già menzionate norme costituzionali e del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. E deve essere chiaro e inequivocabile che la tutela e la conservazione del territorio e del paesaggio vincolato per disposizioni di legge non va minimamente intaccato o stravolto, per nessuna ragione. Il territorio non può né deve essere trasformato in nome di un presunto “progresso” che invece porterebbe unicamente e inevitabilmente alla più selvaggia cementificazione, favorendo vergognosamente la peggiore e più famelica speculazione edilizia.

Vincenzo De Luca, commentando la necessità di un nuovo Piano Paesaggistico della Regione Campania ha affermato che si deve puntare alla tutela dell’ambiente, ma con l’avvertenza che a suo personalissimo parere bisogna superare «quel quadro di vincoli che penalizzano l’attività di trasformazione del territorio». Che significa questo pensiero? Forse consenso al consumo del suolo e al depauperamento delle risorse paesaggistiche e ambientali? De Luca ha detto: «no a idee talebane di ambientalismo». A chi si è rivolto? Chi sono i “talebani” ai quali egli ha fatto riferimento? Forse gli ambientalisti delle associazioni come il FAI, LEGAMBIENTE, ITALIA NOSTRA?

Su un milione e trecentomila ettari di suolo pubblico un terzo è sottoposto a vincoli, attraverso l’opportuna e corretta applicazione di leggi e norme di tutela per la salvaguardia di luoghi e aree protette. Sono duecentosessantanove i provvedimenti che riguardano il territorio della Campania, comprendendo centonovantanove comuni. A sostenere il punto di vista di De Luca, e secondo quanto riportato dall’ANSA, è intervenuto anche Bruno Discepolo, assessore al Governo del Territorio e Urbanistica della Regione Campania, il quale ha rincarato la dose affermando che i provvedimenti di tutela rappresenterebbero, anche a suo dire, un ostacolo allo «sviluppo sostenibile dei territori e delle comunità». Il problema, però, è molto più delicato e complesso di quanto dichiarato dai due esponenti politici regionali e va a inserirsi nel più generale capitolo giuridico e culturale che nasce e trova fondamento proprio nell’Art. 9 della nostra Costituzione repubblicana.

Anche solo pensare a un indebolimento dei provvedimenti legislativi di tutela già operanti e/o a un loro annullamento non significa affatto promuovere lo “sviluppo” e men che meno “sostenibile”, ma significa fare una becera e bassa politica speculativa che rema contro il dettato di legge costituzionale, con conseguente conflitto con quanto previsto dalle norme contenute nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio in merito ad azioni di tutela vincolistica messe legittimamente in atto dalle competenti Soprintendenze Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, le uniche che hanno facoltà giuridiche nel campo della tutela che,  è bene ricordarlo, è atto primario che precede contiene anche le necessarie azioni di valorizzazione e conservazione dei beni culturali e paesaggistico-ambientali.

Difendere la tutela del patrimonio culturale, naturale e paesaggistico non è affatto un atto di improvvidi “talebani”, ma è, invece, un atto di coraggio civile, prima che giuridico, contro ogni sorta di speculazione edilizia e urbanistica in favore della necessaria azione di protezione di contesti naturali e culturali che per la loro importanza e ricchezza sono patrimonio di tutti. E in tal senso il paesaggio va difeso contro la stessa classe politica che da anni sta assaltando questo patrimonio, considerandolo come risorsa esclusivamente economica e non per quello che vale come risorsa di vita e di identità civile di un popolo, di una nazione, di un’idea comune di patria. Pertanto, talebano non è chi difende le leggi di tutela del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale. Deve essere considerato talebano chi invece attenta ad esso, chi vuole stravolgere la legislazione di tutela, annullandone gli effetti o distorcendoli per altri interessi…

Chi difende la tutela giuridica del patrimonio culturale, naturale e paesaggistico non può essere minimamente e sciaguratamente paragonato a un “talebano” perché è un patriota, è un partigiano che nel pieno rispetto della Costituzione difende gli interessi dello Stato e della comunità civile del Paese in cui vive.

I beni paesaggistici sono portatori di bellezza e di cultura e in quanto tali non possono essere oggetto di mire politiche e/o speculative, ma con la scusa della promessa di un mirabolante sviluppo economico-territoriale si potrebbero attuare pericolosi piani urbanistici che andrebbero a modificare, e forse anche a offendere irreparabilmente, ambienti naturali e paesaggistici che per loro stessa intima natura vanno mantenuti intatti nella propria conformazione geografica, orografica e urbanistico-paesaggistica.

Paolo Berdini, nel 2014, già mise in guardia il mondo della cultura e della politica dal pericolo della delegittimazione delle tutele in un saggio significativo dal titolo Il folle disegno dello Stato senza tutele. E già nel lontano 1985 vi furono due visioni contrapposte in seno alla politica nazionale italiana. Nel febbraio di quell’anno fu approvata la prima legge di condono edilizio e ad agosto fu approvata la legge Galasso che sottopose alla legislazione vincolistica e di tutela i beni costitutivi del paesaggio italiano. Il primo provvedimento pose le premesse per lo smantellamento delle regole urbanistiche, grazie a anche a successivi condoni, come quelli del 1993 e del 2003; il secondo, invece, poneva precisi vincoli di tutela al paesaggio, ai beni paesaggistici, fino ad arrivare, nel 2004, all’approvazione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. In Italia si creò, così, un doppio binario tra la tutela del paesaggio da un lato e l’anarchia dell’urbanistica dall’altro. Quest’ultimo ha generato un sempre più forte scardinamento delle regole e una progressiva aggressione nei confronti delle tutele e dei vincoli e oggi si va verso idee sempre più radicali e pericolose per smantellare una volta per tutte proprio l’impianto giuridico-vincolistico delle tutele. È chiaro, a questo punto, che i veri distruttori, i veri “talebani” del patrimonio culturale, naturalistico, ambientale e paesaggistico, sono i politici e non i soprintendenti che invece fanno il proprio dovere applicando, facendole rispettare, le norme giuridiche esistenti e vigenti. I soprintendenti infatti “danno fastidio” ai politici perché rispettano il dettato costituzionale della tutela.

Paolo Berdini, ha scritto che nella «costruzione delle proprie legislazioni in materia urbanistica o in quelle degli stessi piani paesaggistici, molte regioni italiane si sentono autorizzate a capovolgere la Costituzione». Ricordiamo la politica di delegittimazione del ruolo e delle funzioni dei soprintendenti e dei duri e vergognosi e inaccettabili attacchi mossi contro le Soprintendenze da parte di Matteo Renzi, già presidente del Consiglio dei Ministri. Purtroppo, si tratta di una battaglia aperta, che continua ancora oggi con il governo di centro-destra della Meloni. Ma non finisce qui. La guerra per la difesa del patrimonio culturale e del paesaggio è oggi più che mai aperta.

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