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In questa nostra estate (giammai) calda, è bello ricordare quella primavera e quell’estate roventi di 55 anni fa, quando scoppiava la protesta del ‘68. In uno scenario delicato e complesso, la contestazione studentesca segnò un “epocale giro di boa”, ciò che era acquisito, assestato con gli equilibri del dopoguerra venne messo in discussione, i pensieri, gli stili di vita, le stabilità, e non solo a livello politico. Le manifestazioni, dapprima solo cronaca, seppur stravolgente e coinvolgente, poi divennero storia e poi epoca. Il movimento fu forte e al tempo stesso sottile ed insinuante, dirompente ma immerso, intimo, fu squillante e al tempo stesso lieve, epidermico. Se da un lato vi furono separazioni, disconnessioni, allontanamenti, disgregamenti, dissociazioni, dall’altro vi furono nuovi contatti, aderenze, contiguità, tra mondi che non si erano mai parlati e se lo avevano fatto ciò era avvenuto in modo abbozzato, ammaestrato e comandato. Il contatto avvenne, e fu stridente, veemente e virulento, tutto ciò che fino ad allora era stato, non lo fu più.  Ben lungi dal voler percorrere un itinerario memorialistico dopo fiumi d’inchiostro, val la pena ricordare lo storico discorso del giovane ventiduenne, di genitori italiani ma nato a New York, Mario Savio, tenuto davanti all’università di Berkley il 2 dicembre del 1964. Certuna storiografia lo identifica come il “la” del Sessantotto. Già laureato, si era iscritto anche a Berkley, ed ebbe una posizione di rilevo nel Free Speech Movement, dopo aver lottato a favore dei diritti civili e dell’alfabetizzazione degli afroamericani, pronunciandosi già con un discorso tenuto, sembrerebbe, a piedi scalzi sul tetto di un’auto della polizia, e ciò lo rese molto ammirato nella compagine studentesca che si batteva per i diritti. Ma ciò che segnò la sua celebrità fu appunto quel momento straordinario in quella fredda giornata di dicembre, davanti a diverse migliaia di studenti. Siamo nella Sproul Plaza, la grande piazza di Berkley progettata dall’architetto e paesaggista Lawrence Halprin solo due anni prima, essa si divide in due zone, la Upper Sproul e la Lower Sproul, e prende il nome dal presidente dell’Università della California, Robert Gordon Sproul, scomparso da circa dieci anni. E lì Mario parte con il suo proclama, parla di università, di giovani, di rapporto con l’industria, del governo e del mondo degli affari, di lavoro, di livelli di specializzazione sempre più alti e del processo di conoscenza il cui centro è e resta l’università. E poi il passaggio famoso, denominato Operation of the machine: “C’è un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso – ti fa così male al cuore – che non puoi prenderne parte. Non puoi nemmeno passivamente prenderne parte. E dovete mettere i vostri corpi sugli ingranaggi e sulle ruote, sulle leve, su tutto l’apparato, e dovete farlo fermare. E dovete indicare alle persone che lo gestiscono, alle persone che lo possiedono, che a meno che voi non siate liberi, alla macchina sarà impedito del tutto di funzionare”. L’eredità è stata ed è pesante, l’impianto socio-politico-culturale del Sessantotto è stato ed è enorme, voluminoso, e cert’altri hanno voluto individuare tra le resistenti maglie di tale impianto la realizzazione del parricidio avvenuta in quel periodo, l’eliminazione, simbolica e non, dell’idea di padre e di tutto ciò che fosse connesso con tale idea. Lo Stato, l’autorità, la Chiesa, la tradizione, la patria, l’educazione, i docenti, gli intellettuali, gli scrittori, il jet set, tutto venne messo in discussione, non si subì più né padre e né madre, mettendo in forse ed affrontando a muso duro la conoscenza che era appartenuta ad un’intera generazione, e non solo. “Dovevi occuparti del mondo: le lotte dei neri americani, degli eroici vietnamiti, degli operai metalmeccanici. Dovevi saper leggere una busta paga, conoscere il «disagio linea», il taglio dei tempi, come si stava alla verniciatura o alla catena di montaggio”, afferma la scrittrice e giornalista Lidia Ravera. Chissà se il giovane Mario Savio immaginava cosa sarebbe accaduto dopo il suo discorso che incitava a mettere “i corpi sugli ingranaggi e sulle ruote, sulle leve, su tutto l’apparato”, pronunciato in un luogo così lontano e così diverso dai mondi del papà, siciliano, e della madre, veneta; chissà se era pronto a obbligarsi e a combattere per quello che sarebbe stato un “grande collettivismo” con la fatica, chiosando ancora la Ravera, “di quella rifondazione morale e culturale”.  Chi sa.

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