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Eroiche, a dir poco, le donne afgane nella loro impari lotta contro l’integralismo talebano. Sono state circa cinquanta a protestare contro l’ennesima beffa del governo afgano, la chiusura dei saloni di bellezza e dei parrucchieri, a Kabul, e sono state trattate come dei veri e propri nemici pubblici, con colpi di Kalashnikov sparati in aria a scopo intimidatorio e potenti getti di idranti. Non in molti hanno segnalato l’evento, ma un analitico rapporto I.S.P.I. – Istituto Studi Politici Internazionali, di Milano, ce ne riporta i dettagli. L’obiettivo del governo è quello di una vera e propria estromissione delle donne da ogni ambito della vita pubblica e culturale, dalla possibilità di frequentare le scuole secondarie di secondo grado e le università, di accedere al luna park e da ogni area a frequentazione pubblica. L’incontro nei centri estetici costituiva, quindi, l’ultima e unica occasione per comunicare, familiarizzare, intessere relazioni di amicizia e di collaborazione per le donne afgane, e non solo, in un’economia che è tra le più povere del pianeta, prevalentemente a base agricola con l’impiego di circa l’ottanta per cento della forza lavoro, e che comunque non raggiunge 1/3 del prodotto interno lordo, i centri di bellezza rappresentavano spessissimo l’unica fonte di reddito per le famiglie. Si parla di 60.000 donne che potenzialmente potrebbero restare senza lavoro il che, in una situazione di estrema difficoltà economica, potrebbe portare migliaia di famiglie in condizioni di povertà totale, addirittura alla fame. Il governo, l’emirato 2.0 formatosi nel 2021, si difende accampando giustificazioni varie: «le somme “eccessive” spese nei saloni avrebbero causato difficoltà alle famiglie povere e che alcuni trattamenti non sarebbero in linea con i precetti islamici: troppo trucco impedirebbe alle donne di effettuare le abluzioni adeguate alla preghiera, mentre l’extension delle ciglia e la colorazione dei capelli sarebbero in conflitto con l’obbligo di “modestia”». Le cifre dell’apartheid delle dotte parlano chiaro: 3 milioni sono le studentesse escluse dalle classi delle scuole secondarie; 12 anni è l’età in cui l’istruzione viene “temporaneamente” sospesa; 1 bambina su 4 mostra segni di depressione; il 17% delle bambine si sposa prime dei 15 anni (fonte Bbc, Save the Children, UNICEF). Non sono in pochi a parlare di “crimini contro l’umanità” e “apartheid di genere”, in riferimento alla situazione afgana, e il coraggio delle donne è più forte delle imposizioni, del silenzio che spesso si riscontra nei vari ambiti del consesso civico, politico e culturale, anche europeo; il rischio che si corre nel partecipare ad una manifestazione di protesta è enorme, in una relativizzazione radicale dei principi del diritto, è in gioco non solo la libertà personale, ma la stessa vita. Tony Capuozzo, giornalista e scrittore, inviato in molti scenari di guerra, già parlava, in un’intervista di qualche anno fa a Morning News, che era “lecito aspettarsi il peggio”, e in Butcher Street, centralissima via di Kabul, luogo della protesta, lo si è visto davvero, ma non si perde, e non si perderà, lo slogan scritto su uno dei cartelli delle donne in protesta, “Lavoro, cibo, libertà”, sta a noi. Le nostre mamme, le nostre figlie, le nostre mogli, le nostre compagne, le nostre amiche, tutte le donne possono, quando delineano il loro eyeliner, ricordarsi delle donne afgane, che non possono usarlo, ma solo sognarlo, e fra poco neanche quello. Possono.   

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