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Dal 1656 a 1658 la peste devastò il Regno di Napoli, anche se partì dalla capitale in breve tempo si estese a tutto il regno, nel Principato Citra arrivò proprio all’inizio della stagione estiva e fu rapida e devastante nel diffondersi. Poi passò alla Basilicata, alla Calabria Citra ed alla Calabria Ultra, continuando inesorabilmente la sua opera distruttrice, toccando anche picchi di mortalità del 90% soprattutto nei due Principati. Alcune fonti riportano un totale di decessi che va da un minimo di 400.000 ad un massimo di 900.000, altre riportano cifre che vanno da 250.000 a 400.000 morti, calcolando il tutto in funzione dei cosiddetti “fuochi”, ovvero il numero di famiglie censite ai fini fiscali, dette appunto “famiglie fiscali”. Un esempio riferito alla sola città di Salerno, riporta 2.100 fuochi fiscali su un totale di 10.500 abitanti, in un censimento del 1648. Fin qui le cifre, estrapolate da un articolato studio della Dott.ssa Idamaria Fusco, dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo di Napoli.  Ma la peste ebbe un impatto sociale sulle tradizioni, sugli assetti urbani delle città, oltre che sull’economia e sulla vita politica. Forse per esigenze igienico-sanitarie, dovute proprio alla peste, sembrerebbe che a Campagna, in provincia di Salerno, si iniziò a deviare il fiume, che attraversava l’abitato, nel corso principale e nelle stradine attigue, per detergere, astergere, purificare, e l’atto è alquanto probabile che assumesse valenze ben al di là dell’aspetto salutistico. Da sempre, infatti, l’homo religiosus ha visto nell’acqua un elemento per rigenerare, per procurare nuova vita e per purificare, e ora più che mai, all’indomani di tragici eventi come la peste, bisognava assurgere a dimensioni nuove. In piena Controriforma l’homo non poteva, non doveva che essere religiosus, e Campagna, sede vescovile dal 1525, città dal 1518 per volontà di Leone X, luogo di insigni personalità nel mondo della Chiesa e della cultura, facilmente  considerò le acque come simbolo di “sostanza primordiale che precede ogni forma e costituisce il supporto della creazione”, utilizzandole per rinnovare, ringiovanire, far rinascere dopo le nefaste pestilenze. Così dopo l’immane dramma del terremoto del 1980, con tanti caduti per traumi fisici, ed altrettanti sul campo psicologico, la sensibilità culturale, sociale, intellettuale di alcuni volle creare ‘A Chiena, che non rappresentò un mero inondare le vie principali del paese, nell’estate rovente, con l’acqua purissima e fresca del fiume Tenza. Vi fu la ferma e determinata volontà di creare un evento, anzi, l’”evento”, che proponesse un interesse e un’occupazione culturale; che fosse espressione sociale della contemporaneità vissuta, anche dopo i traumi del sisma; che afferisse alla sfera culturale, socio-territoriale ed artistica del paese. Si parlò e si trattò di cinema, di fotografia, di musica, di letteratura, di storia, di conoscenza, di scibile. Passeggiare, ancora oggi, semplicemente tra le vie di Campagna con l’acqua alle caviglie, lanciarsi secchiate d’acqua, vivere l’emozione della Chiena di Mezzanotte, imbrattarsi reciprocamente con la Guerra dei Colori, tutto riporta e rimanda all’atavico atteggiamento dell’uomo di rinvenire un archetipo che gli permetta di ritrovarsi solidale nel bene, proprio quando il male è stato  rilevante e persistente, di individuare quella chiave di lettura socio-culturale degli eventi che conceda si superarne e sublimarne gli aspetti più infausti, un po’ come lo è stato per l’epidemia dalla quale or ora siamo usciti. Ve n’era bisogno, anche della Chiena.

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