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Con la recente scoperta del dipinto raffigurante l’ “Ecce Homo”, in Spagna ad aprile, opera attribuita a Caravaggio da parte di Maria Cristina Terzaghi, ma ancora tutta da confermare poiché si attendono i risultati sulle analisi e sullo stato di conservazione del dipinto, siamo di nuovo di fronte al “mistero Caravaggio”. Vi sono buone possibilità che si tratti di un’opera originale, autentica, del grande maestro lombardo. Tutto questo dimostra che quando si parla, si scrive, si pensa o si ipotizza qualcosa su questo grande artefice della pittura mondiale, operante tra la fine del Cinquecento e il primo decennio del secolo seguente, si accendono immediatamente i fari mediatici che danno vita, attraverso testate giornalistiche e radiotelevisive, a dibattiti a volte anche accesi tra gli studiosi. E purtroppo spesso anche con toni esasperati che esulano dal seminato delle buone intenzioni e della buona educazione.

Il successo legato alla persona e all’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio è stato un po’ gonfiato, dal 2010, da certa stampa interessata agli scoop giornalistici, alle mirabolanti scoperte di suoi dipinti inediti, ma fortunatamente qualcuno vero in mezzo a diversi falsi, e alle attribuzioni di presunti disegni di suo pugno. Si è discusso molto sulla “vita spericolata” di un anticonformista ante litteram, sempre in bilico tra la ricerca affannata della verità delle cose e il controllo asfissiante delle coscienze messo in atto dal Santo Uffizio. Ma la verità è che Caravaggio è sfuggente. È l’eterno fuggiasco che evade dalle più impossibili prigioni, anche quelle dello spirito e della sua stessa coscienza.  È un pittore senza etichette, sempre legato a una visione autonoma e libera della vita e dei suoi casi, nel bene e nel male. Forse al di là del bene e del male, a seconda della convenienza e dei momenti di vita vissuta. Se siamo oggi, qui ed ora, a scrivere di lui, dopo oltre quattro secoli, è perché lo percepiamo come nostro contemporaneo, una persona del nostro inquieto e affannato tempo storico, sostanzialmente per tre motivi: per la forza icastica e dirompente dei suoi dipinti; per il tragico senso della vita e delle sue ansie, paure e inquietudini; per il disagio sociale della sua/nostra contemporaneità.

La pittura di Michelangelo Merisi è legata all’osservazione della verità delle cose, una sorta di “messa in scena” meditata, studiata e prevista nei minimi particolari nelle scenografiche ambientazioni nelle quali si muovono, e agiscono, i suoi santi, le sue Madonne, i suoi pellegrini dai piedi scalzi, piagati e sporchi. La visione dei suoi dipinti ci calamita, ci attrae in mondi che finiscono inevitabilmente per coinvolgerci emotivamente, ben sapendo che l’artista crea, attraverso la ponderata regia delle luci abbaglianti e delle ombre profonde, una propria realtà, luministicamente e compositivamente  equilibrata. La luce guida i nostri occhi, nel tentare di riuscire a vedere la sua realtà, che finisce per diventare inevitabilmente la nostra realtà, verità, emozionalità, annullando il tempo storico dei secoli, rendendoci partecipi e testimoni, qui e ora, di eventi narrati in modo così magistrale da quasi toglierci il fiato. Si tratta, a ben vedere, della stessa partecipazione dell’artista, presente nel “Martirio di San Matteo” o in quello, estremo e tragico, di “Sant’Orsola confitta dal Tiranno”. Ci trascina e ci coinvolge senza mediazioni, senza sofismi e sottigliezze teologiche, ci rende testimoni dell’evento che accade davanti ai nostri occhi, con la nostra presenza.

Il tempo di Caravaggio diventa il tempo delle emozioni, della psicologia, il tempo che ci coinvolge e ci avvolge nell’universo umbratile dei suoi racconti pittorici, delle sue esperienze artistiche e umane, quelle che costruiscono verità naturali del reale e che sono la cifra e il prezzo di un’esistenza inquieta e tormentata che non è svanita, ma che forse ancora vive in noi, oggi. Le sue pitture vivono. Continuano a vivere la loro autonoma vita e oggi noi le viviamo: sono con noi, dentro di noi, accanto a noi. Sono opere contemporanee, ci appartengono, sono di tutti e di nessuno, appartengono a una dimensione storica che si rinnova nel tempo. Sono opere cariche di sguardi, cariche di emozioni, cariche di vita e di umanità. In una foglia, in una ruga sul viso, in una mano, in uno sguardo c’è l’unicità e la grande varietà di un universo che si disvela al mondo. Le sue figure femminili, come i suoi garzoni e i suoi lazzari nelle vesti di questo o quel personaggio, le sue modelle sono lo specchio della vita, sono la vita, fatta di attimi che diventano eterno presente. Le sue luci e le sue ombre sono il significante tormento dell’universo umano, sempre in bilico tra inquietudini esistenziali e libertà di coscienza, eternamente affannato e alla ricerca di una pace interiore, sempre più difficile da rincorrere e raggiungere. A ben vedere, la sua stessa corsa per inseguire la vita è fatta di luci e di ombre che si rincorrono incessantemente nei dipinti fatti per essere visti e goduti a lume di candela sugli altari di San Luigi de’ Francesi, di Santa Maria del Popolo o, ancora, nella pala napoletana delle “Sette Opere di Misericordia”, in un momento di grande tormento e travaglio esistenziale. In quelle opere di Caravaggio c’è il sapore di un’umanità alla ricerca di se stessa, al di fuori e al di sopra di ogni dogma catechisticamente preconfezionato e diffuso da un’asfittica propaganda religiosa. In esse si respira una sacralità e un rispetto per le Sacre Scritture che sono sicuramente più vicine al senso del sacro e alla ricerca della salvezza che non le ingessanti prescrizioni canoniche, per esempio di Gilio o di Borromeo. L’artista guarda dritto negli occhi la malattia, il dolore. La morte e la vita sono le due eterne facce della medesima realtà, Caravaggio le mette davanti agli occhi di tutti in modo icastico attraverso i suoi personaggi, attraverso i suoi eterni capolavori. Tutti viviamo per morire, un viaggio ineludibile a cui siamo destinati, Caravaggio lo sapeva benissimo e lo mise in evidenza, per esempio, nel supremo “Davide con la testa di Golia”, conservato nella Galleria Borghese. Ed è nell’intervallo tra la nascita e la morte che la sua pittura s’incunea con sorprendente eloquenza nella nostra vita, mettendo a nudo il destino di ognuno di noi, allora come ora, come sempre è stato e sarà.

Gerardo Pecci

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