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“Il mondo adulto, pur con grandi sofferenze, è proiettato sui vaccini e sulla fine della pandemia, ma i nostri ragazzi non sanno come immaginare il futuro, e questo dolore silenzioso si insinua ogni giorno creando fratture che poi deflagrano nei nostri pronto soccorso come osserviamo in questi mesi.” È questo l’appello lanciato dall’Associazione degli ospedali pediatrici italiani.

Da più di un anno la pandemia Covid 19 ha costretto i governi sul piano nazionale e internazionale a varare misure di sicurezza per frenare l’ondata di contagi. La scuola ha cercato di fronteggiare il problema istituendo la DAD didattica a distanza, che nasce in questo momento di emergenza a sostituzione di quella tradizionale.

I ragazzi accedono alle lezioni virtuali attraverso un collegamento Internet e l’utilizzo di un apparecchio. Questo ovviamente non sarebbe nuovo per i giovani di oggi, i quali usufruiscono in modo costante delle nuove tecnologie, ma davvero i contatti umani si possono sostituire? I baci, gli abbracci, le risate, i litigi, le uscite, la libertà quanto valgono?

Questa pandemia ci ha mostrato anche l’altro lato della medaglia, che per quanta strada sia stata fatta nel campo delle nuove tecnologie, l’essere umano ha bisogno di altro. I cellulari non bastano, non riescono a sostituire la vita vera, quella fatta di palpiti, carne, lacrime e ossa.

È da circa un anno che si continua ad assistere a dibattiti, interviste, servizi televisivi dove il centro di tutto non è altro che il Covid. Ma dei giovani, forse pochi ne parlano realmente.

La scuola, infatti, non è il semplice luogo dove poter lasciare i propri figli per poter essere liberi, o andar al lavoro. La scuola non è il semplice luogo dell’istruzione, dove ciascun allievo ha il solo compito di immagazzinare quante più informazioni possibili. La scuola è ben altro.

Una seconda casa… un luogo di condivisione, di crescita, di confronto.

Se si tiene conto, inoltre, del fatto che molti ragazzi vivono in contesti familiari e urbani disagiati, quel grande edificio allora rappresenta molto di più. Lo si può identificare nel simbolo della speranza e del riscatto.

La chiusura di questi spazi ha causato un altro grave disastro, silenzioso, di cui nessuno parla. Si è assistito negli ultimi mesi ad un aumento dei tentati suicidi dal 30 al 50 per cento nei reparti di neuropsichiatria infantile italiani.

Stefano Vicari, professore all’università Cattolica e direttore della neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza del Bambino Gesù di Roma, sta prendendo in cura una bambina di 12 anni che si è gettata dalla finestra, un altro di 13 che ha nascosto tutte le pasticche ha trovato in giro per casa e le ha ingerite per tentare il suicidio. Un’altra ancora, dagli ottimi voti a scuola, ha deciso di smettere di mangiare. Vicari ammette: “A me i posti letto spesso non bastano, ne ho un po’ sparsi per l’ospedale, ma la verità è che nessuno si sta accorgendo di quello che sta realmente accadendo. Io ho da uno a due tentati suicidi al giorno, una fascia d’età che va dai 12 ai 17 anni”.

Se davvero non c’è l’interesse di preservare e garantire a quella che sarà la generazione del futuro, un ascolto e sostegno concreto cosa possiamo mai aspettarci da loro?

Abbandonati ed emarginati, dimenticati come se non contassero molto, o come se importasse solo la loro formazione, ai giovani non è stato garantito nulla. L’isolamento sociale ha di certo inferito sulla loro crescita personale, causando disturbi, sensazioni di angoscia e ansia che si porteranno dietro.

Una malattia silenziosa, che si è aggrappata alle loro esistenza, in un periodo già complesso e delicato quale: l’adolescenza che comporta una relazione controversa e problematica con il proprio Io e la consapevolezza di se stessi.

Insomma, i giovani più che mai hanno bisogno di figure concrete che credano in loro, capaci di ascoltarli, di metterli alla prova, di fargli comprendere che non sono un peso, ma la risorsa più grande dell’intero Universo.

È necessario fare un passo indietro e prestare ascolto alle loro richieste d’aiuto, chete, a tratti turbolenti, incomprensibili, ma pur sempre fondamentali.

Ora passo la parola a Franca Adelaide Amico docente e scrittrice presso il Liceo Scientifico A. Volta di Caltanissetta che racconta dal vivo, e con un occhio più analitico come sono stati questi mesi di insegnamento.

Secondo anno scolastico in Dad. Secondo anno scolastico in emergenza Covid. Non è facile definire un’analisi degli accadimenti nel dettaglio in quanto, giorno per giorno, siamo stati indotti (alunni e insegnanti) a reinventare i nostri spazi, il nostro tempo, le nostre vite intere. Così, se ripercorro a ritroso gli eventi, rivedo il primo giorno in cui, ansiosa come una scolaretta, o, come dice Enrico Galiano, come chi si accinge ad incontrare qualcuno per una storia d’ amore a distanza, iniziò la lunga serie di lezioni impartite con una modalità inconsueta allora e quasi abituale adesso. Come tutte le relazioni a distanza, parafrasando sempre Galiano, passato il primo entusiasmo rimane la frustrazione: ” Ti sento ma non ti vedo… ti vedo ma non ti sento…non ti vedo e non ti sento…”

I giorni e le lezioni, nella precarietà delle condizioni generali, si snodavano, così, a frammenti e noi, artigiani indefessi, abbiamo imparato un nuovo modo di insegnare.; i nostri alunni, si sono cimentati in nuove modalità di apprendimento.

Il bilancio? Non facile da definire. Condizioni di emergenza non possono essere oggetto di analisi con   gli stessi   criteri di cui ci serviremmo per le condizioni di normalità; pertanto, anche qui vige il criterio della frammentarietà: talora la Dad è risultata essere un correttivo disciplinare per le classi ancora poco scolarizzate, talora è stata vissuta con notevole disagio, in ogni caso la Dad non può essere la scuola. Sembrerebbe ozioso ribadirlo ma credo, invece, sia necessario, in una prospettiva di ” robotizzazione ” dell’uomo, ribadire che l’insegnamento è per definizione scambio e socializzazione e che nessuna Dad, nessun collegamento multimediale potrà mai sostituire la relazione umana docente-alunno.

Ci troviamo, ovviamente, a dover fronteggiare un’emergenza, dicevo; anzi, per noi insegnanti, le emergenze sono due: l’emergenza Covid e quella annosa dei disagi dovuti a carenze strutturali, esterne, organizzative.

Un’ edilizia scolastica ferma dagli anni Sessanta, non permette certamente la riduzione del numero di alunni per classe e il distanziamento formale, sebbene applicato a norma, non consente pienamente lo svolgimento sereno di lezioni in presenza inficiate dall’ ansia di dover in primo luogo mantenere l’opportuno distanziamento fisico. Senza parlare, inoltre, della mancanza, all’ interno delle aule, di dispositivi di filtraggio e di ricambio dell’aria. Tale è la non semplice condizione in cui oggi siamo costretti ad operare.

Ovviamente, non possiamo osannare la Dad come rimedio ai mali, i rimedi sarebbero altri, più complessi, più profondi, per alcuni utopistici ma gli unici che potrebbero ora e in futuro garantire efficienza e sicurezza.

I ragazzi, insieme a noi, hanno reinventato il loro tempo e il loro apprendimento, dimostrando, in molti casi, grande duttilità e capacità di adattamento. Non è sempre andata così, ovviamente ma una squadra compatta riesce sempre a far fronte alle difficoltà.

Fonti: L’Espresso

Foto presa dal web

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