Karl Marx definì Spartaco come “l’uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale, un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità”. Intorno alla figura dello schiavo romano, nativo della zona balcanica denominata allora Tracia, situata tra l’area nordorientale della Grecia, la parte meridionale della Bulgaria e la parte europea della Turchia, all’inizio del II secolo a.C., si sono riunite varie opinioni e vari concetti, che un poco ne hanno anche snaturato l’azione di rivolta e l’arguzia politico-militare. Spesso si è cercato di vederlo e proporlo come un araldo per questa o quella teoria politica, ma in effetti Spartaco, schiavo poi trasferito a Capua, diede avvio alla terza delle guerre servili volendosi ribellare alle condizioni in cui erano tenuti lui ed i suoi compagni gladiatori, con una violentissima rivolta contro la Repubblica Romana, assolutamente non collegata con le precedenti due guerre. Anche perché riguardò un’ampia zona di quello che era il possedimento romano nell’Italia meridionale, oltre che alcune regioni a nord-est di Roma, mettendo davvero in seria crisi la macchina militare della Repubblica, che si vide costretta e far scendere in campo due condottieri, Pompeo e Crasso, tra l’altro acerrimi avversari. La compagine di Spartaco si ingrossò rapidamente e si scontrò in cruente battaglie, partendo da Capua ed attraversando la Puglia e la Calabria, con un esercito che raggiunse circa 90.000 unità, fino a concentrarsi nella Lucania antica, che contava sette prefetture alcune delle quali non si trovano più nella Basilicata di oggi: Volcei (Buccino), Atina (Atena Lucana), Consilium (Sala Consilina), Tegianum (Teggiano), Paestum, oltre a Grumentum (Grumento Nova)e Potentia (Potenza). L’idea del condottiero e gladiatore era quella di indurre alla ribellione anche la Sicilia, ce lo conferma Plutarco nelle Vite Parallele – Vita di Crasso, affermando che era convinto che bastasse poco per incendiare la Sicilia portandola alle armi. Purtroppo, gli accordi del ribelle con alcuni gruppi di pirati, che avrebbero dovuto far attraversare il Canale di Sicilia ad una “task force”, fallirono, ma Spartaco non si dette per vinto e continuò la sua guerra dando prova di fine ingegno oltre che di forza e bellezza. Plutarco, infatti, così ne parla in Vita di Crasso, IX, accennando anche alla motivazione della ribellione avvenuta a Capua: “Ora la sollevazione dei gladiatori per la quale fu a sacco l’Italia, e la quale comunemente chiamasi la guerra spartacia, origine ebbe da una sì fatta cagione. Mantenuti venendo gladiatori in Capua da un certo Lentulo Batiato, dei quali la maggior parte Galli erano e Traci, ed essendo essi tenuti là a forza rinchiusi non per veruna azion lor malvagia, ma unicamente per l’ingiustizia del loro padrone, il quale riserbavali per farli duellare fra loro, avvenne che duecento di essi ammutiranonsi e deliberarono fuggire. Venutasi però a scoprire la trama, sessantotto, ciò presentendo, provvedutisi e armati di coltelli e di schidioni [lungo spiedo utilizzato per arrostire uccelli e carni varie] trovati in una cucina, balzaron fuori della città prima d’esser prevenuti. Abbattuti poscia per strada i carri che trasportavano armi dei gladiatori in un’altra città, le rapirono e si armarono di esse. Quindi avendo occupato un certo sito assai forte, elessero tra loro tre comandanti, il primo dei quali fu Spartaco, nato in Tracia di tradizione pastorale, e non solamente fornito di coraggio grande e di robustezza, ma di senno inoltre e di piacevolezza più che non si conveniva alla fortuna sua, ed aveva insomma costumi propri di un greco più assai che di un barbaro. Dicesi che la prima volta che venne costui portato a Roma per venderlo, gli fu veduto, mentre dormiva, un dragone attorcigliato intorno alla faccia”. La guerra, quindi, continuò, e mentre Gneo Pompeo Magno impegnava le truppe a nord di Roma, sconfiggendole e catturando circa 5.000 prigionieri, tutti messi a morte, fu Marco Licinio Crasso, a sud, ad incalzare Spartaco. Gli scontri furono sanguinosi, da una parte l’energia e l’audacia dei ribelli e del loro comandante, dall’altra la perfetta organizzazione e l’armamento superiore dei legionari. Allo schiavo non restò che giocare d’astuzia, scegliendo zone montuose per accamparsi e ritirarsi, con il vantaggio di una difesa più facile proprio grazie alla morfologia del terreno. A questo punto, le fonti riportano luoghi diversi riferiti all’epilogo della rivolta. Plutarco ed Appiano di Alessandria parlano di una sconfitta di Spartaco avvenuta nel 71 a.C., a Petelia, città della Magna Grecia e già Municipio nel periodo Romano, quasi certamente l’odierna Strongoli, in provincia di Crotone. Vi è poi la descrizione di Paolo Orosio, storico e presbitero di Roma, vissuto tra il IV e il V secolo, allievo e strettissimo collaboratore di S. Agostino, che gli chiese di scrivere l’opera Sette libri delle storie contro i pagani, una sorta di appendice storiografica del capolavoro di S. Agostino La Città di Dio. Lo storico ci riporta che i sogni di Spartaco si infransero sulle rive del fiume Sele, esattamente nel comprensorio tra i comuni di Oliveto Citra, Calabritto, Caposele e Senerchia. L’ipotesi pare più accreditata anche per i significativi ritrovamenti di reperti, tra i quali armature risalenti al periodo romano, armi e scudi. Sembra verosimile che la ritirata strategica dell’esercito ribelle abbia sfruttato le gole, le colline e le montagne della zona appenninica e preappenninica, oltrepassando il Varco Appennino, o “Varco della Sella di Conza, che “già da tempo permetteva il passaggio degli Osci e dei Sanniti nella valle del Sele, mettendo in contatto l’Adriatico e il Tirreno, la Campania e la Lucania, il Sannio e la Puglia in una sorta di monti e mari” (Echi Osco-Italici Valli del Sele e Lucania Antica, Italo Cernera, Villani Editore, Potenza, 2020). Trovando, quindi, acqua in abbondanza presso le sorgenti del Sele (il comune di Caposele è in provincia di Avellino) e nello stesso fiume che, non dimentichiamo, era anche in buona parte navigabile, ed arteria importantissima per i traffici commerciali dell’epoca, insieme alla Via Popilia, la Salerno-Reggio Calabria di quel tempo, che costruita a partire dal 132 a.C., si snodava da Capua a Reggio (Via ab Rhegio ad Capuam). Plutarco parla dettagliatamente della fine di Spartaco: nell’infuriare della battaglia, nonostante gli esiti avversi, il condottiero si lanciò nel campo di battaglia alla ricerca dell’acerrimo nemico Crasso, che tra l’altro, avallava da sempre i maltrattamenti perpetrati ai danni dei gladiatori, ma senza trovarlo; circondato da un nugolo di soldati romani, combatté strenuamente ed eroicamente, fino a cadere letteralmente massacrato dai numerosissimi colpi inferti. Il suo corpo non è stato mai ritrovato né si è avuta traccia di una sua tomba. Crasso fece anch’egli circa 6.000 prigionieri, che crocifisse lungo la Via Appia da Capua a Roma. Tra i tanti che hanno celebrato le gesta di Spartaco vi è stato il regista Stanley Kubrik, con il film Spartacus, che vinse ben quattro premi Oscar, ed è considerato ancora oggi tra le migliori produzioni epico-storiche. Kubrik però, col passare del tempo prese le distante dal suo capolavoro, è opinione diffusa che sentisse sempre meno suo il film, sia come impianto tecnico-cinematografico che come impostazione socio-politica. E’ acclarato che la forte personalità di Kirk Douglas infastidì molto il regista newyorkese, che fu costretto a modificare o tagliare diverse impostazioni di scene proprio per volontà dell’attore, mentre l’idea di Kubrik era quella di farne anche un film con un paradigma socio-politico, dove il confronto tra libertà, giustizia, oppressione e utopia, “meccanismi eterni del potere e dell’economia lungo le strade della storia romana antica, potessero servire per riflettere e conoscere una parte non trascurabile sia del passato che del presente”. Questo è il pensiero anche del Prof. Mario Tedeschi Turchi, docente presso l’università “Cà Foscari” di Venezia e presso la “Fondazione Toniolo” di Verona, che pone in evidenza la “philoplutìa, ovvero l’amore della ricchezza, l’avidità, quale ‘segno’ principale di un carattere, e quindi quale destino indefettibile, che portò Crasso alla rovina”. Il politico, infatti, si arricchì enormemente, forse fu tra le persone più ricche di allora, e “la maggior parte di questi beni, se si deve dire la verità con irriverenza, ammassò con il fuoco e la guerra, sfruttando al massimo per il suo guadagno le sventure pubbliche”, così ci riporta ancora Plutarco. Basti pensare che all’inizio della sua carriera di condottiero e politico possedeva trecento talenti poi, afferma sempre Plutarco, “prima della spedizione contro i Parti fece per suo uso personale l’inventario del suo patrimonio, trovò che esso ammontava ad un valore di settemila e cento talenti”. Così, il capolavoro di Kubrik non risultò essere ciò che il regista e sceneggiatore aveva sognato che fosse, il bisogno in quel periodo storico (era il 1960) di una traccia assolutamente politically correct, e la prepotenza artistica di alcuni mostri sacri del cinema ne furono i principali colpevoli. Intelligenti pauca.