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Era il lontano 2013, precisamente il 27 maggio 2013 quando Rafa Benìtez Maudes meglio noto semplicemente come Rafa Benitez, veniva ingaggiato da Aurelio De Laurentiis come nuovo tecnico del Napoli. Contratto biennale da 3,5 milioni di euro a stagione per il nativo di Màdrid, che ebbe il grande merito di avviare una vera e propria metamorfosi, un processo evolutivo di internazionalizzazione. I partenopei stavano per cambiare radicalmente pelle: si apprestavano ad abbandonare lo stato embrionale di bruco, per divenire una farfalla e poter spiccare il volo. E infatti la stagione sportiva 2013/2014 regalò non poche gioie ad ADL e soci, ma chi poté senza ombra di dubbio beneficiare di un lavoro meticoloso e certosino messo in atto dal tecnico spagnolo, furono certamente i tifosi, in prima persona. In quell’estate di sette anni fa, si posero le basi per il Napoli del futuro, fino ai giorni nostri. Numerose e magistrali le operazioni supportate economicamente dal patròn azzurro ma concretizzate sotto la supervisione, nonché la direzione tecnica dell’ex manager del Liverpool.

VERBA VOLANT, SCRIPTA MANENT dicevano i latini.

Ma in che senso?

Per avere un quadro più chiaro e dettagliato proviamo a fornire una fotografia, un’istantanea dei calciatori di spessore che, in quella sessione estiva, Benìtez portò con se, nella sua nuova avventura.

Acquisti

Jose Maria Callejon  (A) (Real Madrid), Raul Albiol  (D) (Real Madrid), Gonzalo Higuain  (A) (Real Madrid), Duvan Zapata (A) (Estudiantes), Pepe Reina (P) (Liverpool), Rafael (P) (Santos), Dries Mertens (C) (PSV Eindhoven),  Jorginho (C) (Verona), Ghoulam (D) Saint Etienne.

Tra i nomi in entrata figuravano pezzi da novanta, calciatori di esperienza, maestri della tattica, strappati alla concorrenza di top club europei, per seguire il proprio mentore e desiderosi di aprire un ciclo vincente alle pendici del Vesuvio. Filo diretto fu Madrid, capitale della Spagna, centro nevralgico dell’intera europea, dal punto di vista economico, culturale e sportivo. Josè Maria Callejòn e Raùl Albiol, i pezzi pregiati dei Blancos desiderosi di cambiare aria e approdati alla corte di De Laurentiis rispettivamente per 8 e 10 milioni di euro, hanno radicalmente mutato la prospettiva dei partenopei, diventandone negli anni seguenti, perni imprescindibili, inamovibili. Tutto finito? Macchè. Il colpo da novanta portava in dote un nome ed un cognome, Gonzalo Gerardo Higuaìn. Quaranta i milioni sborsati per il centravanti argentino, una la missione: diventare una bandiera, una pietra miliare, il bomber per eccellenza, ripercorrendo, perché no, le orme di un numero dieci del passato, del numero dieci per eccellenza. Si proprio lui, Diego Armando Maradona. Sangue argentino, garra, amore, passione, sentimento. Il Pipita (per via del suo naso pronunciato) voleva far innamorare il suo nuovo popolo, il suo nuovo popolo era pronto ad innamorarsi nuovamente dopo aver ammirato le gesta del Matador Cavani, partito dal Bel Paese e da Napoli, destinazione Francia, più precisamente Parigi, per legarsi al Paris Saint Germain. Ma fu proprio Benìtez che segnalò appunto, altri due pupilli in quel di Madrid, Josè Callejòn e Raul Albiòl per l’appunto. Il primo straordinariamente utile per quel perenne movimento a pendolo sull’out di destra, il centrale spagnolo sinonimo di carisma, leadership e costruzione da dietro. Nel Napoli, la qualità stava crescendo a dismisura. Furono però altri due gli acquisti degni di nota, in grado di far svoltare il Napoli e passati illo tempore in sordina: Dries Mertens prelevato dal Psv Eindhoven e Pepe Reina, baluardo, colonna portante, uomo di fiducia nonchè uomo spogliatoio. Era ormai tutto pronto, il MUST? Abbandonare il 3-5-2 di Mazzarriana memoria per approdare in un nuovo universo, in un universo targato 4-2-3-1. Furono due le stagioni di Rafa Benìtez al Napoli, condite da una Coppa Italia, vinta in finale contro la Fiorentina per 3 a 1 allo stadio Olimpico di Roma e da una Supercoppa contro i rivali di sempre della Juventus.

L’asse MADRID-NAPOLI, era infuocato e stava decollando.

Due furono però le parentesi negative, sotto la gestione del tecnico madrileno: la cocente eliminazione contro l’Athletic Bilbao, nei preliminari di Champions League, e la sconfitta per 2-4 al San Paolo ai danni della Lazio di Stefano Pioli, nell’ultima giornata di campionato, dove era in ballo l’ultima posizione utile per la massima competizione europea. Nonostante ciò però, tirava un’aria diversa in quel di Castel Volturno, quartier generale azzurro.

Il mutamento era avvenuto, il Napoli stava entrando nell’élite del calcio europeo. Il primo luglio 2015, iniziò un triennio, un triennio ricco di gioie, di bel gioco, di emozioni. Maurizio Sarri approda sul pianeta azzurro, si proprio così. Figlio del mare, del Vesuvio, della pizza, della tradizione napoletana ma soprattutto del caffè, prontamente fattogli recapitare già dal suo primo giorno di ritiro a Dimaro, (il padre lavorava presso la Italsider di Bagnoli, famoso quartiere di Napoli). Ex dipendente della Banca Toscana per la quale lavorò anche a Londra, in Germania, Svizzera e Lussemburgo. Ma è nel 1999 che il nostro protagonista, quando siede sulla panchina del Tegoleto, che lascia il proprio lavoro, per dedicarsi esclusivamente alla carriera da allenatore.

“Ho scelto come unico mestiere quello che avrei fatto gratis. Ho giocato, alleno da una vita, non sono qui per caso. Mi chiamano ancora l’ex impiegato. Come fosse una colpa aver fatto altro”.

Così parlava Maurizio Sarri al Foglio, in un’intervista rilasciata nel lontano 2014.

I capisaldi del calcio di Sarri? Canonica difesa a quattro schierata in linea alta. Riferimento principale? Solo ed esclusivamente il pallone. Per i napoletani, per Napoli, ma in generale per gli amanti del bel gioco, il “Sarrismo” stava diventando una religione, da professare e adorare. Rivisitazione completa dell’apparato scheletrico lasciato in eredità dal suo predecessore e valorizzazione di ogni singolo uomo, dai calciatori più affermati a coloro che avevano e che avrebbero ricevuto poco spazio. Il Sarrismo era qualcosa di totalizzante, a tratti poetico. Vedere il Napoli giocare a calcio era pura estasi, libidine, godimento anche per i palati più fini, sulle orme di un altro grande e vincente allenatore del passato, colui che probabilmente ha cambiato la visione d’insieme di questo meraviglioso sport, Arrigo Sacchi.

Pochi furono gli innesti sotto la guida del tecnico toscano, su tutti Allàn prelevato dall’Udinese, grazie anche agli ottimi rapporti tra De Laurentiis e la famiglia Pozzo. Valorizzazione e crescita esponenziale per tutto il gruppo. Chi in particolare? Kalidou Koulibaly. Prelevato l’anno precedente dal Genk per soli 7.5 milioni, il colosso franco-senegalese sotto la maniacale direzione tecnico-tattica del suddetto mister toscano, è diventato uno dei migliori centrali dell’intero panorama europeo.

L’undici di Sarri era il medesimo, giornata dopo giornata, domenica dopo domenica, e non importava chi fosse l’avversario. Lo si affrontava sempre con la giusta cattiveria, con le stesse armi: velocità, verticalizzazioni, possesso palla incessante, costruzione da dietro e occupazione degli spazi. Era bellissimo poter ammirare quel dannato 4-3-3. Un’ orchestra che suonava uno spartito pressochè perfetto.

Di seguito l’undici canonico: Reina, Hysaj, Ràul Albiol, Koulibaly, Ghoulam, Jorginho, Allan, Hamsik, Insigne, Higuàin, Callejon.

Formazione trita e ritrita, letta e riletta, lodata, osannata.

Ma in panchina, all’insaputa di Maurizio Sarri, figurava un calciatore. Di nazionalità belga, dalla bassa statura ma tremendamente forte ed efficace, in grado di spaccare letteralmente le partite, Dries Mertens.

L’annata successiva infatti (2016-2017), vi fu la svolta. Il Napoli salutò Higuàin, trasferitosi all’ombra della Mole, in quel di Torino, sponda Juventus dopo aver infranto il record di goal, tutt’ora vigente, totalizzando 36 marcature in 38 giornate, primato eguagliato lo scorso anno da Ciro Immobile con la maglia della Lazio. Il mister toscano doveva partorire qualche idea geniale, malsana, al tempo stesso stuzzicante ed affascinante, per rimpinguare un ruolo delicatissimo, lasciato vacante dalla partenza appunto del numero nove argentino, e così fu.

Si accese la lampadina, Dries Mertens falso nueve.

Accanto al folletto belga vi era lui il capitano, Lorenzo Insigne e alla sua destra la sapienza tattica di Josè Maria Callejon. Il risultato? Nella stagione sportiva 2016-2017, che coincise con il secondo anno di Sarri sulla panchina azzurra, il belga mise a referto 28 centri in campionato. Fu l’anno della consacrazione, sia per il numero 14 sia per il mister tosco-napoletano, dalla tenuta ginnica, dal cappellino facile e che masticava in preda al nervosismo, durante la partite, mozziconi di sigaretta. Personaggio certamente curioso, controverso e sui generis, l’ex impiegato di banca sfiorò lo scudetto, l’anno successivo, dove fu in grado di espugnare lo Stadium, grazie alla prepotente incornata di Koulibaly, che gli consentì di toccare quota 91 punti, un’enormità, a -4 dalla Juventus, dominatrice indiscussa e dalla rosa spaziale.

Quello di Sarri alla guida del Napoli fu un triennio di spettacolo per tutto il popolo napoletano. Sì, perché vincere era relativo, le emozioni che quella squadra partoriva e regalava sul rettangolo verde, erano indescrivibili.

Ricordo, macchiato dal trasferimento alla Juventus, dopo aver vinto un’Europa League in Inghilterra, con il Chelsea di Roman Abramovich, imprenditore, politico russo e presidente dei Blues.

Quale poteva essere la figura, l’uomo in grado di far dimenticare Maurizio Sarri?  ADL pensava ad un volto noto per il calcio italiano, europeo, internazionale. Occorreva non interrompere la crescita di cui stava beneficiando il Napoli, che necessitava del migliore in circolazione, sul mercato. Ed il migliore incarnava il nome di Carlo Ancelotti.

L’accordo fu imminente.

Gioco di sguardi, strette di mano e la promessa di rendere il club un fiore all’occhiello, un modello da seguire, in Italia e in Europa.

L’auspicio? Vincere.

Il desiderio era quello di concludere al meglio quella trasformazione, intrapresa sotto la gestione Benìtez, proseguita con Sarri e culminata con l’avvento dell’allenatore di Reggiolo, ex Milan e Real Madrid, in grado di dare lustro e credibilità al Napoli. Nonostante la seconda posizione centrata alla prima stagione, che lasciava presagire una crescita continua e perenne, con gli acquisti di Arek Milik dall’Ajax e Fabiàn Ruiz dal Betis Siviglia, la stagione successiva, nonostante gli arrivi in grande stile di Lozano e Manolas fu una disfatta, tanto che nel dicembre del 2019, lo stato maggiore partenopeo fu chiamato ad una decisione impensabile, imponderabile. Esonerare re Carlo.

Ma chi al suo posto?

Cosa occorreva al Napoli?

Di cosa necessitava questo Napoli?

Alcuni degli interrogativi che circolavano a Castel Volturno ed in società. Serviva una scarica di adrenalina, un allenatore dal pugno duro, inflessibile, che compattasse il gruppo, gruppo che navigava in acque torbide. La classifica era impietosa, il Napoli era settimo.

L’uomo giusto e scelto dal presidente fu Rino Gattuso, separatosi pochi mesi prima dal suo amato Milan.

E veniamo al presente.

Ad un anno e poco più dal suo avvento in città, Gattuso uomo vero e grande lavoratore sta incontrando non poche difficoltà, con la sua creatura.

L’incostanza degli azzurri, la mancanza di veleno e di personalità è a tratti sconcertante. Black out improvvisi, superbe prestazioni contro le squadre più quotate della Serie A, match impalpabili e sbiaditi contro le cosiddette piccole.

Il Napoli sembra essere regredito e la classifica in questa nuova annata non mente e recita: Napoli sesto a -9 dal Milan capolista.

Ma quali le cause che hanno portato a ciò? Tutti sul banco degli imputati, da Giuntoli, transitando per i calciatori, fino ad arrivare all’allenatore appunto, Rino Gattuso. Ma probabilmente tutto ciò ha radici vetuste, riconducibili proprio alla scellerata gestione Ancelotti.

Tante, troppe le cessioni di perni indiscussi: su tutti il metronomo, l’architetto del centrocampo azzurro, quel Jorginho lasciato partire troppo facilmente e mai realmente rimpiazzato. Stesso discorso per il capitano, Marek Hamsik partito alla volta della Cina, e sparito con uno semplice schiocco di dita. A queste due assenze si è poi aggiunta la svalutazione con annessa cessione di Allàn.

Non giriamoci intorno, il Napoli si è ridimensionato, soprattutto a centrocampo, e ci sentiamo di affermare che ad oggi anche un pezzo pregiato, un calciatore dalla qualità sconfinata come Zielinski, non sia esaltato da questo sistema di gioco.

Il non aver preso un regista ha fatto crollare un intero settore, una squadra che fatica a trovare la quadra, una sua definitiva identità. Sotto accusa il mercato azzurro, in queste due ultime sessioni, quella invernale e quella estiva. Un patrimonio depauperato: dai 12 milioni spesi per Diego Demme ai 20 per Stanislav Lobotka, uniti ad altri colpi come Rrahmani per 14 milioni ed acquistato solo nell’incertezza e per l’incertezza di una probabile partenza di Koulibaly, seguito e bramato dal Manchester City di Pep Guardiola. Affare di fatto poi non concretizzato.

Inquietante la parabola discendente di Fabiàn Ruiz. Lo spagnolo, titolare nella nazionale di Luis Enrique, fatica e non poco nel centrocampo a due di Gattuso, al fianco di Bakayoko. Fabiàn è una classica mezz’ala, pertanto deve giocare in un centrocampo a tre.

Rivedibile per giunta la composizione dell’attacco: Mertens, Osimhen e Petagna le prime punte, ai quali non va dimenticato di aggiungere il numero 99 polacco, Arek Milik, ai ferri corti, in rotta con la società e che ormai vive da separato in casa. Pessima la gestione del classe ’94, acquistato per 33 milioni dall’Ajax e destinato a partire a zero, a giugno 2021. Era un dovere per la società ricucire un rapporto logoro e logorato. Questo significava risparmiare altri 20 milioni di euro, spesi per l’acquisto di Petagna.

Tutto in attesa di Victor Osimhen naturalmente.

Fino ad ora, e siamo alla 17^ giornata di Serie A, abbiamo potuto ammirare sprazzi del centravanti acquistato dal Lille per 70 milioni di euro più di 10 di bonus, per un totale di 80, acquisto più costoso della storia del Napoli. Poco, molto poco, complice un infortunio e la spada di damocle del Covid19. Crescerà, questo è fuori discussione. Gli azzurri necessitavano di una grande prima punta, ma nel momento in cui si decide di staccare un assegno di questa portata, la “sicurezza” deve farla da padrona. Le scommesse non sempre riescono e in un ruolo delicato come quello della prima punta, la certezza deve essere d’obbligo.

 Il dubbio permane e permarrà.

Sarebbe stato più corretto sborsare 40-50 milioni per un trascinatore nonché uomo squadra come Belotti?

Sarebbe stato più giusto rinforzare una fascia sinistra che dopo la parentesi Ghoulam, pecca tremendamente di qualità ed esperienza?

Sarebbe stato più corretto investire su un play, un regista in grado di far girare la squadra? Perché non affondare allora il colpo su Jordan Veretout prima che si accasasse alla Roma?

Perché lasciare al Milan un talento del domani come Sandro Tonali?

Tante le perplessità che aleggiano.

Lo scetticismo regna sovrano.

Al netto di errori evidenti sul mercato, un’altra riflessione è d’obbligo. Il modulo attuale del Napoli, si concilia alla perfezione con le caratteristiche dei singoli interpreti?

Il 4-2-3-1 necessita di particolari equilibri e di calciatori specifici, in ruoli delicati.

Che i partenopei abbiano qualità è evidente.

Che il Napoli resti una grande del nostro calcio lo è altrettanto.

Occorre però una netta inversione di marcia, sia a livello tecnico che a livello dirigenziale. Le altre squadre corrono e crescono a vista d’occhio ed il Napoli non può arretrare di un millimetro.

Tanti, troppi gli assegni staccati per seconde linee, quando il problema principale, in determinati settori, concerneva i titolari.

Lacune non colmate.

Scommesse a peso d’oro.

Il Napoli sta pagando una confusione generale, un momento di appannamento totale.

E la sfortuna non c’entra assolutamente nulla.

Fonte foto: Alberto Pizzoli/ Getty Images

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