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Lunedì 22 maggio Raffaele Messina, professore e scrittore, è stato ospite dell’Osteria Gattapone, nella cornice del centro storico, per presentare il romanzo “Artemisia e i colori delle stelle”, un romanzo ispirato alla vita dell’artista barocca Artemisia Gentileschi, tristemente nota non tanto per il suo lavoro ma per lo stupro subìto in giovane età. Come l’autore spiega, attraverso i pensieri di Artemisia, questa artista viene ancora oggi violentata, ogni volta che quell’abuso mette in ombra il suo operato, le sue qualità di donna, i suoi dolori di madre, la sua bravura di artista e la sua genialità di imprenditrice in un certo senso. Il romanzo si apre su un momento topico della vita della giovane, il processo contro Agostino Tassi, amico di Orazio Gentileschi, denunciato da quest’ultimo per le violenze perpetrate sulla figlia e per la scomparsa di un quadro dalla sua bottega. Il libro è scritto in terza persona, il linguaggio, sebbene contemporaneo per essere più vicino al lettore, ricorda in alcune sfumature l’intercalare romano di quel tempo, così da calarci nell’atmosfera della capitale nel 1612.

«Non mentite!» intimò incalzante il giudice. «Sapete bene quali danni potrebbe arrecare la sibilla alle dita di una giovane…»
«Cosa può farmi? Io non lo so… Lo voglio sapere anch’io: può spezzarmi le dita?» proruppe la ragazza che d’un tratto avvertì crampi allo stomaco, tali da farle deporre ogni baldanza. «Ditemelo, ditemelo…» implorò trattenendo lacrime di sgomento.
Il solo pensiero che quella tortura potesse lasciare danni permanenti alle mani sconvolse Artemisia. Questo no, non glielo aveva detto nessuno, neanche suo padre. Questo no, non lo aveva messo in conto… E le mani a lei servivano più che ad altri. Era pittrice lei! Lei tra quelle dita governava pennelli d’ogni lunghezza e foggia con movimenti netti, rapidi e precisi come i passi d’una danza. E ora? Al di là del dolore del momento, cosa sarebbe accaduto dopo? Avrebbe potuto continuare a dipingere?

Anche se narrato in terza, e non in prima persona, dalle pagine, dalle descrizioni degli stati d’animo e dai dialoghi emerge potente la personalità di Artemisia, una donna forte, decisa, caparbia. Sebbene si tratti di un romanzo, non manca un approfondito studio storico, non solo del processo e della vita dell’artista ma della società del tempo, degli usi e costumi, della geografia, dei luoghi e questo lo notiamo in ogni dettaglio, in ogni descrizione ma anche in ogni frase pronunciata da uno qualsiasi dei personaggi e non soltanto dalla protagonista, in questo modo emerge, in maniera chiara, ogni singola sfumatura dell’ambientazione. L’opera, molto descrittiva, non narra semplicemente la vita di una donna, per quanto importante possa essere, ma diviene pretesto per parlare di storia, di società, di arte e cultura del Seicento italiano.

La ragazza guardò il suo carnefice, guardò i suoi giudici, quasi incredula: «Che me state e ffà? Non so’ io sotto processo… Non so’ io l’imputata!»
«La mortificazione della carne non è una punizione. È occasione di espiazione dei tuoi peccati. È purificazione dell’anima. È accertamento della verità nella luce di Nostro Signore. Nel dolore, per il tempo di un Miserere, sapremo se voi dite il vero al cospetto degli uomini e di Dio! Voi, dunque, state accusando Agostino di stupro violento. […]»

Qui emerge il vero senso di quel processo. Nel corso del tempo in molti si sono convinti che Artemisia, con coraggio, nel Seicento, da sola, avesse trovato la forza di denunciare uno stupro, rifiutando un matrimonio riparatore. Ebbene, non è andata così, all’epoca non sarebbe mai potuta andare così, ma non vi svelo altro perché se fate parte di quella percentuale di persone che non ha mai approfondito la vita di questa artista, non solo non voglio spoilerare, ma voglio anche vivamente consigliarvi di leggere questo romanzo, antico e contemporaneo allo stesso momento. Contemporaneo perché molte delle cose narrate mi hanno ricordato episodi e pensieri del nostro tempo, la crudezza ma anche l’attualità di certi passaggi mi hanno messo i brividi, soprattutto se pensiamo che ben quattrocento anni ci separano da Artemisia ed è sconcertante rendersi conto che certe cose, specialmente le più meschine, non sono variate di una virgola.Queste parole mi hanno ricordato i tristi processi del nostro tempo, tutte le volte in cui ad una donna le si è chiesto “come eri vestita? Eri da sola? Avevi bevuto?” quasi la colpa della violenza subìta fosse della donna, è lei la colpevole perché con la sua avvenenza ha attirato il maschio, è lei colpevole perché non si è opposta abbastanza. Il fatto che succeda oggi come quattrocento anni fa è socialmente e storicamente inaccettabile, ma torniamo alla nostra storia. È un romanzo che sebbene non lungo, parliamo di circa centosessanta pagine, va letto con calma (anche se io ho imbrogliato, finendolo in tre giorni ma andiamo avanti), perché narra una storia importante, profonda, perché spinge a mille riflessioni, perché pone degli interrogativi ai quali il lettore, con il suo pensiero, deve dare risposta e tutto questo ha bisogno, come un buon vino, di decantare. Altro aspetto che mi è piaciuto della prima parte del libro è il cambio, ad ogni capitolo, del punto di vista, particolarità che ci dà una visione a trecentosessanta gradi della vicenda. Mentre, infatti, il primo capitolo affronta la vicenda dal punto di vista di Artemisia, nel secondo scopriamo quello del colpevole, Agostino Tassi e dei suoi compari di cella, uomini vili e depravati che ci mostrano i pensieri più gretti e meschini che l’animo maschile possa partorire nei confronti di una donna. Messina non si risparmia, il suo linguaggio è più realistico di una fotografia, usa termini volgari, immagini oscene per mostrarci la vera faccia di queste persone, aspetto che ho apprezzato molto, non amo quando gli autori mettono troppi filtri.

«[…] E voi, signori di mondo, potete credere a una sciocchezza così gigantesca? Quale membro, tra voi, potrebbe reggere un’erezione, se mancante di un pezzo di carne e sanguinante?»
Le risate ripresero il sopravvento, con lazzi e gesti osceni ciascuno prese a vantare le proprie virtù nascoste.
«Lo volete vedere?» proseguì Agostino Tassi. «Ve lo fo vedere, ve lo metto sotto il naso… Così avrete riscontro coi vostri occhi di quale cicatrice m’abbia lasciato quella bagascia… Chi si fa avanti? Venga, venga ad annusare, ma dopo si tenga pronto che glielo fo sentire anche nel culo…»
«Ma va là, Smargiasso!»
«Mi hai convinto» disse un omaccione robusto seduto a capotavola. «Appena esco de qua, vado a casa dei Gentileschi e provo del persona com’hai insegnato er mestiere alla calda Artemisia».
Smise di ridere il Tassi e balzò in piedi. Smisero di ridere tutti, mentre anche l’omaccione s’alzò in piedi pronto a raccogliere la sfida. Agostino, furente lo avvertì: «Figlio di una cagna, sappi che non permetto a nessuno d’orinare nel mio stesso vaso. A nessuno ch’abbia a cuore di restare uomo vivo».

Nel capitolo tre, invece, conosciamo Serafino Spada, assistente consigliere. Serafino è il personaggio che, più di tutti, ha incontrato le mie simpatie. Serafino ci fa capire la realtà presente dietro il processo, Serafino è il passepartout del romanzo, è un personaggio che l’autore usa per spiegarci le vere intenzioni presenti dietro quello che sembrerebbe quasi un processo giusto ed equo ma che di giustizia ed equità non ha nulla! Tramite Serafino il lettore è guidato a riflettere su una realtà ben più oscura, celata dietro questo processo, una realtà che vede la donna come mero oggetto di possesso di un uomo, che sia il padre o il marito, una realtà dove un bene materiale come un quadro vale più di un essere umano, se l’essere umano è di sesso femminile. L’autore, con maestria, tramite il punto di vista di un personaggio secondario, ci dice moltissimo di questa vicenda, svelandoci tutte quelle carte nascoste che non avevamo minimamente preso in considerazione.

Sola. Per Serafino Spada, Artemisia era sempre stata sola. Il padre l’aveva gettata tra gli ingranaggi di una macchina giudiziaria complessa e spietata, di fronte alla quale ella doveva arrangiarsi da sola. Come da sola, del resto, aveva dovuto cavarsela quando Orazio Gentileschi l’aveva lasciata esposta agli intrighi seduttivi di uomini e donne senza scrupoli.

Successivamente conosciamo anche il punto di vista di Orazio, padre di Artemisia che, oltre ad esporre il suo parere, ci parla anche di arte ed è qui che avviene la magia: in bianco e nero, inchiostro su carta, con l’uso sapiente della parola, Messina ci mostra Caravaggio. Miscelati ai suoi sensi di colpa, Orazio ci svela anche alcuni dei suoi segreti di pittore e anche qui sono rimasta affascinata dall’accuratezza storica con la quale Messina descrive alcune tecniche seicentesche. Si continua con altri personaggi, con altri luoghi, la locanda sporca e lercia, la bottega del Gentileschi, lo studio di un giudice, insomma quasi un viaggio in tondo per scoprire tutti i meccanismi, tutti gli ingranaggi dietro quest’enorme orologio. Ogni personaggio, in pratica, ci dà la sua versione dei fatti, il suo punto di vista, giusto o sbagliato che sia e il vero giudice è il lettore, che ha il compito di mettere insieme i pezzi del puzzle e costruirsi la sua verità.
Sebbene di solito, in tutte le biografie e i romanzi biografici noti di Artemisia, la vita dell’artista venga narrata fino al suo ritorno dal Regno Unito, facendoci credere che fosse morta poco dopo, probabilmente in Toscana e che abbia toccato la Campania quasi per caso, così non è e Raffaele Messina ci tiene a farci sapere la realtà. Secondo dati certi, infatti, Artemisia è vissuta a Napoli, fra il prima e il dopo, circa vent’anni, cancellati dalle biografie ufficiali, come mai? Come disse il poeta “ai posteri l’ardua sentenza”, il discorso è lungo e non sono queste le pagine sulle quali affrontarlo. Per fortuna, però, Messina ci restituisce il periodo napoletano di Artemisia. Lasciamo una giovane sedicenne e ritroviamo una donna di circa cinquant’anni, calata in una realtà difficile, una donna che si è fatta da sé, che vive della sua arte, che produce opere pittoriche di grande spessore, che ha perso la bellezza della gioventù ma sa ancora giocare con il suo fascino. Artemisia a Napoli ebbe fortuna a quanto pare, strinse rapporti importanti con il Viceré Duca d’Alcalà e fu in contatto con influenti artisti come Massimo Stanzione, addirittura le sue due figlie si sposarono a Napoli. L’autore ci fa immergere in questa realtà, con la sua solita precisione storica, con le descrizioni anche delle cose più semplici, come la “beauty routine” di una donna del XVII secolo o le sue (dis)avventure per le strade della città. Essendo un romanzo non sappiamo dove finisca la realtà e inizi la finzione, immagino che anche Messina si sia divertito a fantasticare su come Artemisia si sarebbe comportata in determinate situazioni o inventare queste situazioni di sana pianta. A differenza della prima parte qui osserviamo la realtà sempre dal punto di vista della protagonista.

Mentre egli parlottava, Artemisia si guardò ancora intorno e vide un arrotino che, spingendo la mola a pedale, affilava le lame di alcuni giovinastri che gli si erano avvicinati. Poco distante, un piattaro aveva assicurato la propria mula a un piede di mandarino e stava cominciando a liberarla da un carico di stoviglie.

Le descrizioni della città di Napoli, poi, mi hanno ricordato quelle di Goethe nel suo “Viaggio a Napoli”, anche se lo scrittore ha visitato la città più di un secolo dopo, nel 1787. Non è un libro femminista, eppure c’è del femminismo, l’autore ha la capacità di esprimere a parole quella “sorellanza” che Artemisia per anni ha espresso con linee e colori attraverso le sue opere, ci basti guardare la sua “Giuditta e Oloferne” o, comunque, tutte le protagoniste femminili dei suoi quadri, donne impavide e audaci. E forse proprio per questo Messina fa un omaggio a “Il resto di niente”, romanzo di Enzo Striano sulla vita di un’altra donna importante, sullo sfondo di quella stessa Napoli di Artemisia, una Napoli che nel 1649 usciva dalle rivolte di Masaniello e che nel 1799 viveva una rivoluzione, sto parlando di Eleonora de Fonseca Pimentel. Sono due le domande che mi sono fatta durante tutta la lettura: “come finirà? Con la morte di Artemisia? Con la commissione del suo ultimo quadro?” e “perché l’autore ha scelto questo titolo?”. Vorrei dirvelo, vorrei davvero dirvelo ma… se ve lo dicessi commetterei un grave crimine, sappiate però che il finale è quasi più stupefacente del resto del libro, mi ha lasciata con un senso di speranza e dolcezza e, soprattutto, mi ha dato una gran bella risposta a quel “e i colori delle stelle”.
Dalla vicenda narrata allo stile di scrittura, dalla storia al romanzo, da Artemisia all’intera rosa di personaggi che si rincorrono, è un’opera che consiglio davvero a tutti, non solo per scoprire aspetti sconosciuti della vita artistica di una delle pittrici più grandi del barocco italiano, ma anche semplicemente per godere di una lettura appassionante.

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