Quando l’abate era anche ammiraglio, la storia dell’importante flotta della Badia di Cava de’ Tirreni

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Nel 529 circa, S. Benedetto condusse i suoi monaci da Subiaco a Montecassino dando vita al proto-cenobio ove, nel 540, compose la “regola per i cenobiti”: nacque così il più antico ordine monastico dell’Occidente, l’Ordo S. Benedicti. Caratteristiche essenziali furono la figura dell’abate, da abbas che significa padre, che era eletto e restava in carica per tutta la vita, era considerato un vero e proprio rappresentante di Cristo e gli si doveva obbedienza totale; altre peculiarità dell’ordine erano il lavoro manuale e la recita delle preghiere in precisi e scanditi momenti della giornata, di qui la celebre locuzione ora et labora. L’ordine ebbe una grande sviluppo, spesso legato ai vari papi e imperatori dell’epoca e alle loro sorti, diffondendosi un po’ ovunque e soprattutto nell’Europa nordoccidentale, ma chi ne propose la iniziale diffusione fu S. Gregorio Magno. Proprio per queste sue peculiarità, l’ordine benedettino attraversò un momento di crisi e di decadimento nel IX secolo, risentendo degli eventi legati al disfacimento dell’impero ed anche alla morte di Ludovico il Pio, lo stesso ingresso nelle abbazie di numerosi laici e appartenenti alle alte sfere del clero non giovò all’originaria floridezza dell’ordine. A ciò fece riscontro un bisogno di ritornare all’originaria austerità e semplicità così, a Cluny, in Francia, venne fondato nel 910 l’omonimo monastero, dal quale si dipartì un grande movimento di riforma monastica che si diffuse ampiamente, recuperando e privilegiando l’autenticità della vita eremitica e un’osservanza scrupolosa della “regola”. La Badia di Cava de’ Tirreni sorse proprio sull’onda di questa riforma, con i lavori di costruzioni che vennero avviati nel 1011 e si conclusero nel 1025. Fondata da Sant’Alferio Pappacarbone, l’abbazia ebbe il suo massimo splendore nei secoli XII, XIII e XIV, con dei particolarissimi privilegi durante la dominazione longobarda ed anche su diretto intervento di papa Urbano II, che era appunto un monaco benedettino. Venne infatti concesso un particolare privilegio a questo monastero, cioè di avere i diritti sull’ancoraggio e il falangaggio. L’ancoraggio era ovviamente ancorare delle navi nei porti, il falangaggio era ormeggiare delle imbarcazioni in approdi minori, spesso fuori dai porti, legandole alle cosiddette falanghe o falangne, dei lunghi pali di legno che venivano conficcati sulle rive del mare, ed anche dei fiumi, per permettere ancoraggi più o meno estemporanei.  Questo diritto si denominava ius anchoragi et phalangagi, e all’inizio in pratica l’abbazia si trovò a gestire una vera e propria flotta di navi nei porti di Vietri, nell’antico porto di Fonti, comunicante con la rada di Cetara, e di Castellabate, e nelle cui acque prospicienti aveva addirittura i diritti sulla pesca, nonché il particolare diritto alla pesca del tonno ad Erchie e a Palinuro. Una fittissima rete di scambi molto intensi quindi, e non solo commerciali ma anche sociali e culturali, pure con le altre repubbliche marinare come ad esempio Pisa ed Amalfi, senza escludere Napoli, Sorrento, Gaeta, Lipari e Scalea. Scalo principale era il porto di Vietri, che rappresentava il fulcro dei traffici dell’abbazia, anche per trasportare le merci in Africa e verso il Medio Oriente. Lo stesso traffico fluviale curato dai monaci era intenso, soprattutto lungo i fiumi Sele e Tusciano, con battelli che ampliavano e completavano una già fitta rete di trasporto che permetteva all’abbazia di far giungere le merci pure sulla sponda adriatica della penisola. La rete portuale della Badia di Cava toccò alla fine del XII secolo i porti di Agropoli, Pozzillo e il porto Travierso di Castellabate, Staino, Casalvelino e Santa Maria dei Pioppi in Pollica, ove vi era un ancoraggio anche per navi di significativa stazza, e già nel X secolo vi sorgeva una chiesa dedicata a “Santa Maria dei Pioppi”. Ciò comportò la possibilità di commercializzare un’ampia gamma di prodotti per quelle popolazioni del Cilento, non solo a livello agricolo ma anche ittico. Grazie agli ottimi rapporti con le Repubbliche Marinare, ed in primis con la vicinissima Amalfi, la badia ebbe dei privilegi particolari per quanto riguarda la possibilità di ottenere degli scali in assoluta franchigia nel Medio Oriente. La grande liquidità disponibile durante il periodo delle crociate fece sì che i traffici commerciali per le zone ove si combatteva rappresentassero un grande movimento, così città come Tiro, Sidone, Jaffa e S. Giovanni d’Acri vennero raggiunte dalle navi e dalle ambascerie diplomatiche dei benedettini di Cava. Queste imbarcazioni, dette saettìe, rappresentavano un gioiello della cantieristica navale di allora: erano relativamente leggere, con un equipaggio che raramente superava i dieci marinai, molto veloci, con la configurazione a bialbero (raramente a tre alberi) e, fatto di importanza non secondaria, tenevano bene il mare. Navigando prevalentemente sotto costa, dai nuovi scali poterono arrivare anche ad Alessandria d’Egitto e toccare destinazioni lungo la costa tunisina. L’avvocato Alfonso Mignone, autore del libro Navi e porti della Badia di Cava, Passerino Editore, ci rassicura anche sulla effettiva esistenza delle saettìe proprio nel periodo di influenza e gestione dei traffici da parte della badia, anche se iconograficamente si sono avute rappresentazioni delle geniali imbarcazioni solo all’inizio del ‘600.  I mutati scenari politici ed economici, legati anche al sorgere del Regno di Sicilia e del Regno di Napoli, fecero sì che la potente flotta benedettina fosse completamente smantellata alla fine del ‘400, quando anche l’epoca di quel mercato in quell’ampia zona triangolare del Mediterraneo che aveva come vertici il nostro Meridione, Bisanzio e l’Africa settentrionale comincerà il suo declino.

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